Prendersi cura di chi cura: una responsabilità medica ancora trascurata
"Dove le altre possono camminare, io devo correre"
"Ho sempre avuto un osservatorio su quello che succede nelle famiglie in cui nasce un bambino con una malattia rara", racconta la dottoressa Faravelli. "E le storie che più mi hanno colpito sono state storie di madri. Madri che hanno adattato la loro vita all'evento che era capitato e che hanno fatto di questa storia un punto di forza invece che un punto di debolezza".
I numeri danno concretezza a queste storie. Secondo i dati raccolti dalla Federazione UNIAMO e da EURORDIS, il 60% dei caregiver di persone con malattie rare impiega più di due ore al giorno in attività legate direttamente o indirettamente alla patologia. Il 30% arriva a sei ore quotidiane. Il 42% ha dovuto interrompere o ridurre la propria attività professionale, con una riduzione delle entrate economiche che tocca il 69% delle famiglie. Due terzi dei caregiver riferiscono serie difficoltà nella gestione pratica ed economica della propria situazione.
"Ricordo che quando lavoravo in Inghilterra una madre si definì project manager della malattia di suo figlio", racconta Faravelli. "Passava il suo tempo a coordinare le cure ospedaliere, quelle territoriali, gli appuntamenti. È un'immagine che mi è rimasta impressa, perché descrive perfettamente il carico organizzativo che queste donne si trovano a gestire, oltre a quello emotivo". Una madre, in un'indagine qualitativa, ha sintetizzato così la sua condizione: "Io non sono una mamma come tutte le altre. Dove le altre possono camminare, io devo correre".
Un impatto che ha un genere
Che il caregiving abbia un volto prevalentemente femminile non è una novità. Ma nel mondo delle malattie rare questa asimmetria assume dimensioni ancora più marcate. Il report Women in Rare della Federazione UNIAMO documenta una discrepanza sistematica: livelli di stress e sintomi depressivi più elevati nelle donne rispetto agli uomini, maggiore compromissione della qualità della vita, maggiore impatto sul lavoro, più ore settimanali dedicate all'assistenza.
Le donne con una malattia rara, inoltre, devono affrontare tempi di diagnosi più lunghi rispetto agli uomini: in media 5,4 anni contro 3,7. E c'è un aspetto ulteriore, spesso trascurato: quello delle donne portatrici sane di condizioni genetiche legate al cromosoma X. "Col tempo stiamo scoprendo che in alcuni casi, pur non avendo la malattia conclamata, hanno problematiche di salute che sono state a lungo misconosciute", spiega Faravelli. "Ma c'è anche un carico psicologico importante: il vissuto di essere state loro a trasmettere la condizione. In alcune culture questo genera un vero e proprio stigma, che fa sì che queste donne vengano emarginate dalle comunità. Da noi tutto questo può generare, come minimo, un grande senso di colpa".
La dimensione del problema è tale che nel 2021 le Nazioni Unite hanno adottato una risoluzione specifica sulle malattie rare, riconoscendo che "le donne e le ragazze svolgono una quota sproporzionata di lavoro domestico e di cura non retribuito quando un membro del loro nucleo familiare ha una malattia rara".
Quando chi cura smette di curarsi
"Le ricadute riguardano l'ambito sociale, la possibilità di interagire con altre persone, ma anche la salute", spiega Faravelli. "Se una madre non ha il tempo di farsi la mammografia di controllo, rischia una diagnosi tardiva di tumore al seno. È un circolo vizioso: chi si prende cura degli altri finisce per trascurare sé stesso". Depressione, ulcera gastrica, patologie legate allo stress cronico sono all'ordine del giorno.
Ma l’esperienza del caregiving, sottolinea la genetista, non è solo distruttiva. "È tutto trasformativo, e non sempre in senso negativo", osserva. "Ho visto caregiver che hanno sviluppato caratteristiche, competenze, una resilienza importanti. Hanno coltivato le relazioni: meno relazioni, ma di qualità". Pur tuttavia, aggiunge, "non bisogna dimenticare che per alcune persone potrebbe essere difficile innescare questo meccanismo di trasformazione, soprattutto in alcuni ceti sociali dove l'impatto economico è devastante".
Dal suo osservatorio al Gaslini, Faravelli vede quotidianamente quello che alcuni definiscono "pellegrinaggio sanitario": famiglie che si trasferiscono da regioni lontane centinaia di chilometri, costi economici ed emotivi che si accumulano. "Non sa quante famiglie ho conosciuto che si sono trasferite a vivere a Genova per la malattia del figlio", confida. L'impatto non risparmia nessuno in famiglia: "Ci sono esperienze molto interessanti anche sulle conseguenze sui fratelli e sorelle sani, i cosiddetti “sibling”, aggiunge. "L'impatto su di loro è un tema che merita attenzione".
Perché il medico deve occuparsi del caregiver
C'è un aspetto che spesso sfugge: la salute del caregiver riguarda direttamente anche i medici. Se una madre non riesce a prendersi cura di sé, se soffre di depressione, se non ha un lavoro, se è esausta, questo va a detrimento delle cure e del percorso terapeutico del bambino. Non riesce a somministrare le terapie, a far seguire determinati stili di vita, a garantire la continuità del percorso di cura.
"Il medico dovrebbe essere primariamente interessato al benessere del caregiver", afferma Faravelli. "Quando abbiamo a che fare con pazienti in età pediatrica, abbiamo a che fare col sistema famiglia. È evidente, è imprescindibile. È nostra responsabilità morale tenere conto delle ricadute sulle madri e sugli altri membri della famiglia".
La genetica clinica, per sua natura, ha sempre avuto questo sguardo allargato. "Noi ci occupiamo della famiglia perché spesso ci occupiamo anche di prevedere la possibilità che la stessa condizione possa ripresentarsi", spiega. "E per tanti anni, non avendo trattamenti e terapie per i nostri pazienti, tutto è stato basato sul processo di comunicazione. È un approccio olistico che sarebbe auspicabile in tutti i settori della medicina".
Cosa può fare un ospedale moderno per i caregiver
La dottoressa Faravelli identifica diversi livelli di intervento prioritari per alleggerire il carico dei caregiver. Il primo riguarda la diagnosi: ridurre quella che viene definita "odissea diagnostica", il percorso che porta le famiglie a vagare per anni tra specialisti diversi. "Abbiamo la responsabilità di metterci in condizioni culturali e tecnologiche per offrire diagnosi rapide e corrette", afferma. "Non c'è niente di peggio che fornire una diagnosi sbagliata". La comunicazione della diagnosi, inoltre, dovrebbe essere oggetto di approfondimento culturale per tutti i medici, con un supporto psicologico strutturato per le famiglie.
Un altro livello, forse il più impattante sulla vita quotidiana, riguarda la presa in carico. "Se l'ospedale si aspetta che una persona venga lunedì a vedere l'oculista, martedì l'ortopedico, mercoledì il cardiologo, giovedì il genetista e venerdì il neurologo, e questo succede una volta al mese, la famiglia è stremata". La direzione è quella dei percorsi assistenziali multidisciplinari: pacchetti di visite coordinate, in cui la famiglia sa che deve venire una volta ogni sei mesi e in quella occasione vede tutti gli specialisti necessari. Il Piano Nazionale Malattie Rare prevede proprio questo: piattaforme ospedaliere dove i controlli avvengono con la co-presenza degli specialisti.
A questo si aggiunge la telemedicina. "In temi come quelli della genetica, in cui la visita fisica del paziente non è sempre necessaria, poter restituire l'esito di un test a distanza è rivoluzionario", spiega Faravelli. "Parliamo di una coppia che vuole capire quali indagini fare per una nuova gravidanza, o della restituzione di un esame fatto sei mesi prima. Per un istituto come il nostro, che riceve famiglie da tutta Italia, significa evitare viaggi di centinaia di chilometri".
Un sistema che ancora non c'è
In Inghilterra esiste un catalogo nazionale di test genetici, il National Genomic Test Directory, con sette grandi laboratori che operano tutti secondo gli stessi standard, su tutto il territorio. In Italia questo coordinamento non esiste. "Il tema dell'inequità di accesso è veramente qualcosa da cui non si sa dove cominciare", ammette Faravelli.
La consapevolezza, assicura la genetista, c'è da tempo nella classe medica. Quello che manca è la possibilità di mettersi in moto in un sistema sanitario regionalizzato che crea disuguaglianze invece di eliminarle. Ma qualcosa si muove: l'attenzione al caregiver, la medicina narrativa, i percorsi multidisciplinari, la telemedicina. Piccoli passi verso un'idea di cura che includa non solo il paziente, ma tutto il sistema di relazioni che lo sostiene.
Perché prendersi cura di chi si prende cura non è un'aggiunta, non è un lusso. È parte integrante della medicina.
Questo articolo fa parte del progetto editoriale "Tecnologia ed empatia: il nuovo racconto della cura con Esaote e PERSONE", realizzato in collaborazione tra Esaote e PERSONE Magazine.